Non siamo dei provinciali, anche se in provincia ci abitiamo.E non siamo neanche dei pivellini: tre anni di Villaggio della birra ci hanno fatto crescere in fretta.Nonostante questo, il passaggio dal Villaggio alla Città (del Salone del Gusto) non è stato privo di sorprese, e, soprattutto di fatiche. Anche mentali.
Il Salone ha un “gusto” diverso da quello del Villaggio: è imponente, spesso caotico, lascia poco spazio alle relazioni umane. La gente passa, spesso riesce solo ad “agguantare” qualcosa, difficilmente riesce ad assaporare e/o “gustare” un prodotto, quasi mai ha la possibilità di allacciare rapporti umani poco più che spicci. Non so se tutto questo è voluto, o la cosa è scoppiata in mano agli organizzatori, i quali hanno messo in piedi un apparato monstre, ma di difficile gestione e di ancor più complicata fruizione. Comunque, è una vetrina imponente: centinaia e centinaia di espositori, che portano prodotti quasi unici nel loro genere. E quando mai li ritrovi tutti insieme?La domanda però è un’altra: ma tutti quelli che c’erano, ci potevano (o dovevano) proprio stare? Accanto alle ostriche norvegesi e al presidio dei fichi di Carmignano o del pecorino di Farindola (solo per citarne alcuni) c’erano i mega stands di ditte non proprio artigianali. Accanto ai prodotti poveri di terre povere c’erano i mega ristoranti delle varie regioni d’Italia, che proponevano menù a prezzi non sicuramente popolari. Bastava poi dare un’occhiata al nome degli sponsor principali dell’evento …Non sono un purista a tutti i costi, ma non sempre il detto “business is business” lo reputo sottoscrivibile: e mi chiedo anche (come socio di Slowfood) in che modo la filosofia slow dell’organizzazione di Carlin Petrini (oggi solo presidente onorario) si concilia con quello che ritengo un vero e proprio processo di ibridazione?
La stessa “indeterminatezza”, o ibridazione, la si è notata anche nel comparto birrario: produzioni artigianali insieme (per modo di dire) ad altre più che industriali, qualità spiccata da una parte, omogeneizzazione del gusto dall’altra. Forse la filosofia era: imparate dal contrasto/confronto? Ci credo fino ad un certo punto.E la dislocazione fisica dei vari prodotti birrari all’interno degli ambienti del salone mi è sembrata tutto fuorchè rispondente a criteri gustativi basati sul confronto. La birra di qualità era relegata in un ghetto (più che in una piazza), la birra più “ordinaria” nelle varie corsie degli stand; quella di qualità in una posizione logistica che ci arrivavi solo dopo averla cercata a lungo e con fatica, nell’altra ti ci imbattevi girovagando. E certe contiguità fra stand- paninari e stand- birrario di grande marca suscitavano più di un sospetto. Non è gelosia commerciale, questa: è solo constatazione di una incoerenza di sistema, prima che organizzativa.
Detto questo, non si può però non parlare dello “stato dell’arte”, cioè di come il mondo della birra di qualità è stato rappresentato a Torino. Splendida è stata l’occasione di verificare di persona lo stato di salute e i voli di fantasia dei birrai artigianali americani, presenti con un ricchissimo stand della Brewers Association. Molta birra teutonica, poca quella di una qualità da ricordare. Le birre inglesi artigianali non proprio numerosissime. Gli italiani: ancora abbastanza nervosi, o parzialmente dubbiosi, tesi a cercare di intuire cosa si nasconde dietro l’orizzonte della birra artigianale di qualità, alla luce della diatriba, finita non benissimo, fra Kuaska e Unionbirrai. Consobir ha reso pubblico il disciplinare, ormai già noto ai più, e ha cominciato a mettere un po’ la testa fuori dal guscio: staremo a vedere, le premesse ci sono. Una ventina erano i birrifici italiani presenti, “raccolti” nel bunker rosso della piazza della birra: molte le conferme, non molte le delusioni, che comunque ci sono state. Una rappresentanza più che dignitosa: senza dare voti ai singoli, facciamo una media generale, fra il 6 e il 7. E incontrando i mastri birrai italiani, abbiamo pensato al futuro: per il “nostro” Villaggio del 2009 abbiamo avuto il piacere di invitare due fra i migliori birrifici presenti a Torino, le cui birre erano tutte in splendida forma. E ci ha suscitato un legittimo moto di orgoglio il fatto che entrambi ci abbiano manifestato subito il loro piacere di venire da noi, per partecipare ad un evento (parole loro) significativo per qualità ed impostazione. Non diciamo il nome dei due birrifici, perché il (tanto) tempo che ci divide da settembre 2009 ci impone prudenza e riservatezza: ma la stretta di mano fra persone adulte è molto più che una promessa. C’è “gusto” a parlare con gente così. Così come c’è “gusto” nel dire che la “nostra” Dulle Teve alla spina ha fatto furore, soprattutto fra gli addetti ai lavori. E questa è l’unica cosa che diremo di noi: non è mai bene citarsi.
Queste le prime impressioni: magari con l’allontanarsi nel tempo dell’evento torneranno, con calma, alla mente altre annotazioni e riflessioni. Vi rimandiamo ai prossimi post di questo blog per un resoconto dettagliato dei laboratori del gusto dedicati alla birra ai quali abbiamo partecipato (il signor Gianni ne ha fatta incetta). Questi sì, hanno mantenuto nella loro seria impostazione, lo “stile” originario del Salone, che poi è la sua più autentica ricchezza.
Il Salone ha un “gusto” diverso da quello del Villaggio: è imponente, spesso caotico, lascia poco spazio alle relazioni umane. La gente passa, spesso riesce solo ad “agguantare” qualcosa, difficilmente riesce ad assaporare e/o “gustare” un prodotto, quasi mai ha la possibilità di allacciare rapporti umani poco più che spicci. Non so se tutto questo è voluto, o la cosa è scoppiata in mano agli organizzatori, i quali hanno messo in piedi un apparato monstre, ma di difficile gestione e di ancor più complicata fruizione. Comunque, è una vetrina imponente: centinaia e centinaia di espositori, che portano prodotti quasi unici nel loro genere. E quando mai li ritrovi tutti insieme?La domanda però è un’altra: ma tutti quelli che c’erano, ci potevano (o dovevano) proprio stare? Accanto alle ostriche norvegesi e al presidio dei fichi di Carmignano o del pecorino di Farindola (solo per citarne alcuni) c’erano i mega stands di ditte non proprio artigianali. Accanto ai prodotti poveri di terre povere c’erano i mega ristoranti delle varie regioni d’Italia, che proponevano menù a prezzi non sicuramente popolari. Bastava poi dare un’occhiata al nome degli sponsor principali dell’evento …Non sono un purista a tutti i costi, ma non sempre il detto “business is business” lo reputo sottoscrivibile: e mi chiedo anche (come socio di Slowfood) in che modo la filosofia slow dell’organizzazione di Carlin Petrini (oggi solo presidente onorario) si concilia con quello che ritengo un vero e proprio processo di ibridazione?
La stessa “indeterminatezza”, o ibridazione, la si è notata anche nel comparto birrario: produzioni artigianali insieme (per modo di dire) ad altre più che industriali, qualità spiccata da una parte, omogeneizzazione del gusto dall’altra. Forse la filosofia era: imparate dal contrasto/confronto? Ci credo fino ad un certo punto.E la dislocazione fisica dei vari prodotti birrari all’interno degli ambienti del salone mi è sembrata tutto fuorchè rispondente a criteri gustativi basati sul confronto. La birra di qualità era relegata in un ghetto (più che in una piazza), la birra più “ordinaria” nelle varie corsie degli stand; quella di qualità in una posizione logistica che ci arrivavi solo dopo averla cercata a lungo e con fatica, nell’altra ti ci imbattevi girovagando. E certe contiguità fra stand- paninari e stand- birrario di grande marca suscitavano più di un sospetto. Non è gelosia commerciale, questa: è solo constatazione di una incoerenza di sistema, prima che organizzativa.
Detto questo, non si può però non parlare dello “stato dell’arte”, cioè di come il mondo della birra di qualità è stato rappresentato a Torino. Splendida è stata l’occasione di verificare di persona lo stato di salute e i voli di fantasia dei birrai artigianali americani, presenti con un ricchissimo stand della Brewers Association. Molta birra teutonica, poca quella di una qualità da ricordare. Le birre inglesi artigianali non proprio numerosissime. Gli italiani: ancora abbastanza nervosi, o parzialmente dubbiosi, tesi a cercare di intuire cosa si nasconde dietro l’orizzonte della birra artigianale di qualità, alla luce della diatriba, finita non benissimo, fra Kuaska e Unionbirrai. Consobir ha reso pubblico il disciplinare, ormai già noto ai più, e ha cominciato a mettere un po’ la testa fuori dal guscio: staremo a vedere, le premesse ci sono. Una ventina erano i birrifici italiani presenti, “raccolti” nel bunker rosso della piazza della birra: molte le conferme, non molte le delusioni, che comunque ci sono state. Una rappresentanza più che dignitosa: senza dare voti ai singoli, facciamo una media generale, fra il 6 e il 7. E incontrando i mastri birrai italiani, abbiamo pensato al futuro: per il “nostro” Villaggio del 2009 abbiamo avuto il piacere di invitare due fra i migliori birrifici presenti a Torino, le cui birre erano tutte in splendida forma. E ci ha suscitato un legittimo moto di orgoglio il fatto che entrambi ci abbiano manifestato subito il loro piacere di venire da noi, per partecipare ad un evento (parole loro) significativo per qualità ed impostazione. Non diciamo il nome dei due birrifici, perché il (tanto) tempo che ci divide da settembre 2009 ci impone prudenza e riservatezza: ma la stretta di mano fra persone adulte è molto più che una promessa. C’è “gusto” a parlare con gente così. Così come c’è “gusto” nel dire che la “nostra” Dulle Teve alla spina ha fatto furore, soprattutto fra gli addetti ai lavori. E questa è l’unica cosa che diremo di noi: non è mai bene citarsi.
Queste le prime impressioni: magari con l’allontanarsi nel tempo dell’evento torneranno, con calma, alla mente altre annotazioni e riflessioni. Vi rimandiamo ai prossimi post di questo blog per un resoconto dettagliato dei laboratori del gusto dedicati alla birra ai quali abbiamo partecipato (il signor Gianni ne ha fatta incetta). Questi sì, hanno mantenuto nella loro seria impostazione, lo “stile” originario del Salone, che poi è la sua più autentica ricchezza.
AL
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