Pubblichiamo un primo report su un laboratorio di degustazione a cui abbiamo partecipato durante il Salone del Gusto. Ci stacchiamo per un momento dal Belgio raccontandovi “ Le birre innovative degli america’s beer poets”.
(Salone del Gusto 2008; Laboratorio di sabato 25 ottobre, condotto da Charlie Papazian e Kuaska). Report di Alberto Laschi
Carlie Papazian (qui a sx, foto da www.siouxcityjournal.com), l’ex ingegnere nucleare armeno attualmente residente negli USA a Boulder (Colorado), fondatore (1979) della Brewers Association, Kuaska e Luca Giaccone: questi gli attori principali del laboratorio incentrato sulla scoperta delle nuove birre artigianali americani, quelle più inusuali, più particolari, più “poetiche”, come il titolo stesso del laboratorio faceva presagire.
E sono state proprio birre “dell’altro mondo”, sia in senso geografico che in senso gustativo: spesso estreme, alcune spiazzanti, una in lattina (!), ma tutte con una vena di sana follia. Com’è sanamente folleggiante l’ambiente americano dei birrificatori artigianali, non del tutto marginale all’interno del mercato dei consumi birrari USA, nel quale rappresenta un buon 5% (così come lo stesso Papazian ha raccontato ai presenti). Interessantissimo anche il breve preambolo che Papazian ha fatto precedere alla degustazione, nel quale ha delineato a grandi linee l’evoluzione produttiva della birra artigianale in USA, e la filosofia che ci sta dietro. Innanzitutto: gli americani hanno studiato, e dal 1980 al 1990 (circa) hanno prodotto birre ricalcando “filosoficamente” gli stili birrari ormai più che strutturati nel Vecchio Continente, ma rivisitandoli, attraverso l’uso di materie prime autoctone e non proprio affini a quelle usate in Europa. E il trend è continuato dalla metà degli anni ’90, con la produzione di birre molto alcoliche, estreme, molto maltate, prodotte sempre mediante l’uso di lieviti e malti USA. Adesso in America si sta assistendo ad una terza fase nella filosofia produttiva: oltre all’uso generoso del luppolo in alcune tipologie produttive, adesso i brewers americani si sono innamorati anche dell’invecchiamento in botti di legno delle loro birre, pur non avevano ben chiaro, all’inizio almeno, quale sarebbe stato l’esito di tale procedura. Lapalissiana in questo senso l’affermazione di Papazian stesso: “gli americani adesso stanno raffinando i propri processi produttivi; adesso hanno un’idea abbastanza precisa di dove vogliono arrivare, anche se non l’hanno ancora scritta”. Il loro è uno working progress.
Passando alla “lista” vera e propria delle birre proposte in degustazione, la prima (di una lunga serie di salti gustativi ed alcolici) è stata la Samuel Adams Chocolate Bock della Boston Beer Company, una dunckler bock di 5,5° prodotta una volta l’anno grazie alla collaborazione con il mastro cioccolataio svizzero Felchlin. Buona birra, leggera seppur corposa, prodotta con il cacao del Nord della Bolivia. Come ha detto Kuaska, un “buon esempio semi-artigianale di una produzione semi-industriale”.
Carlie Papazian (qui a sx, foto da www.siouxcityjournal.com), l’ex ingegnere nucleare armeno attualmente residente negli USA a Boulder (Colorado), fondatore (1979) della Brewers Association, Kuaska e Luca Giaccone: questi gli attori principali del laboratorio incentrato sulla scoperta delle nuove birre artigianali americani, quelle più inusuali, più particolari, più “poetiche”, come il titolo stesso del laboratorio faceva presagire.
E sono state proprio birre “dell’altro mondo”, sia in senso geografico che in senso gustativo: spesso estreme, alcune spiazzanti, una in lattina (!), ma tutte con una vena di sana follia. Com’è sanamente folleggiante l’ambiente americano dei birrificatori artigianali, non del tutto marginale all’interno del mercato dei consumi birrari USA, nel quale rappresenta un buon 5% (così come lo stesso Papazian ha raccontato ai presenti). Interessantissimo anche il breve preambolo che Papazian ha fatto precedere alla degustazione, nel quale ha delineato a grandi linee l’evoluzione produttiva della birra artigianale in USA, e la filosofia che ci sta dietro. Innanzitutto: gli americani hanno studiato, e dal 1980 al 1990 (circa) hanno prodotto birre ricalcando “filosoficamente” gli stili birrari ormai più che strutturati nel Vecchio Continente, ma rivisitandoli, attraverso l’uso di materie prime autoctone e non proprio affini a quelle usate in Europa. E il trend è continuato dalla metà degli anni ’90, con la produzione di birre molto alcoliche, estreme, molto maltate, prodotte sempre mediante l’uso di lieviti e malti USA. Adesso in America si sta assistendo ad una terza fase nella filosofia produttiva: oltre all’uso generoso del luppolo in alcune tipologie produttive, adesso i brewers americani si sono innamorati anche dell’invecchiamento in botti di legno delle loro birre, pur non avevano ben chiaro, all’inizio almeno, quale sarebbe stato l’esito di tale procedura. Lapalissiana in questo senso l’affermazione di Papazian stesso: “gli americani adesso stanno raffinando i propri processi produttivi; adesso hanno un’idea abbastanza precisa di dove vogliono arrivare, anche se non l’hanno ancora scritta”. Il loro è uno working progress.
Passando alla “lista” vera e propria delle birre proposte in degustazione, la prima (di una lunga serie di salti gustativi ed alcolici) è stata la Samuel Adams Chocolate Bock della Boston Beer Company, una dunckler bock di 5,5° prodotta una volta l’anno grazie alla collaborazione con il mastro cioccolataio svizzero Felchlin. Buona birra, leggera seppur corposa, prodotta con il cacao del Nord della Bolivia. Come ha detto Kuaska, un “buon esempio semi-artigianale di una produzione semi-industriale”.
La seconda è stata la Dogfish Head Palo Santo Marron della Dogfish Head Brewery di Milton (Delaware), una scura American strong ale di 12°, invecchiata nelle botti di legno paraguayano di Palo Santo, duro e resinoso. Ed è stata very strong, questa birra, molto fruttata e resinosa, calda e riscaldante.
Si è poi proseguito con la Stone 08.08.08 Vertical Epic Ale della Stone Brewing Co. di Escondido (California), una golden belgian ale di 8,4°. Birra celebrativa della Stone Brewing, l’equivalente americano di ciò che Teo del Baladin è per l’Italia (parole di Kuaska), floreale e fruttata con un tocco resinoso dato dall’uso di luppoli americani.
E’ stata poi la volta della Oak Aged Yeti Imperial Stout della Great Divide Brewing Company di Denver (Colorado), una imperial stout di 9,5°: parole di Papazian, “non se ne può bere molta, anche se assalta i sensi in modo confortante”, ed è effettivamente una di quelle birre da bere prima di andare (subito dopo) a letto.
La Left Hand di Logmont (Colorado) ha poi proposto la Smoke Jumper , una smoked di 9,8° che ha fatto la gioia di tutti i presenti appassionati di birre affumicate. Prodotta solo ogni 2 anni, facendo affumicare sul fuoco di 5 legni diversi il malto necessario, ha corpo e carattere (sembra speck liquido); Giaccone l’ha definita “una birra senza spigoli”.
La più “strana” è stata la Maui Brewing CoCoNuT Porter della Maui Brewing Company di Lahaina (Maui), una porte di 5,7°, in lattina. Facile da immaginare la sorpresa dei partecipanti di fronte ad una birra servita in lattina ad un laboratorio di degustazione, ma Papazian ne ha chiarito subito il perché; a parte il fatto che ad oggi la tecnologia produttiva dell’alluminio ha fatto progressi notevolissimi, e la birra non è più a contatto con l’alluminio stesso della lattina “salvandosi” quindi dall’effetto metallico nel gusto che poteva derivarne, i produttori dell’isola di Maui hanno fatto una vera e propria scelta ecologica. L’alluminio si smaltisce molto meglio del vetro, e anche farlo arrivare nell’isola è molto meno dispendioso del vetro. A parte questo, per chi piace il cocco questa birra è la morte sua, per chi piace la birra, questa è la morte sua (della birra).
Si è finito poi con la Goose Island Bourbon County Stout della Goose Island Beer Company, Chicago (illinois), una imperial stout di 13°, birra celebrativa del 1000° lotto di birra prodotto, invecchiata in barili dove prima era passato a stagionare il bourbon. E in questa birra di whisky ce n’è rimasto molto, è sicuro. E’ una birra con la quale il mastro birraio ha voluto ringraziare i clienti per la loro fedeltà nel consumare le proprie birre, un vero e proprio regalo.
Bella filosofia, birre impegnative, non sempre di facile bevuta, sicuramente non banali; difficili, ma non eccentriche né stravaganti. Non è impossibile, quindi, produrre prodotti “estremi” senza renderli imbevibili: qualcuno, in Italia, dovrebbe buttarci l’occhio e prendere appunti ….
AL
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